LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE ABBANDONI LA TERAPIA"
creata il 25 marzo 2008 aggiornata il 27 maggio 2011

 

 

Je ne vois rien de plus ridicule qu'un homme qui se veut mêler d'en guérir un autre.

Molière, Le malade imaginaire, Acte III, Scène 3

Vieni dall'Introduzione o da pagine dove si contesta la riduzione della psicanalisi a psicoterapia, attraverso la medicalizzazione imperante.

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"E la terapia?" o "La cura della scienza"

In questo sito dedicato alla psicanalisi non si parla molto di psicanalisi come terapia, la malfamata psicoterapia. Nel lontano 1997 ho precisato la mia posizione nei confronti della psicoterapia in un carteggio con Ettore Perrella, pubblicato con il titolo Una lettera per l'altra su "Scibbolet", 4, 1997, pp. 166-194. Tale carteggio fu messo in rete da Paolo Migone per Psychomedia all'indirizzo: http://www.pol-it.org/ital/documig5.htm. Ne esiste anche una versione inglese, tradotta da Simona Revelli all'indirizzo: http://www.priory.com/ital/perrellaeng.htm.

Nel mio computer, nella cartella intitolata "Aterapia", si trova molto materiale in proposito:

Guarigione senza terapia (1997)

Das Unbehagen in der Psychoanalyse heisst Psychotherapie (1999)

"Che la terapia non uccida la scienza" (2003).

Di quest'ultimo testo propongo una nuova versione aggiornata alla pagina

"Che la terapia non uccida la scienza (Seconda versione)"

Da allora le mie posizioni non si sono modificate, anzi si sono rinforzate, grazie ai risultati della mia ricerca sulla scientificità della psicanalisi. Recentemente (2009) ho avuto modo di esprimerle in modo forte e chiaro in una relazione di parte, a difesa di uno psicanalista citato in giudizio da un suo analizzante per esercizio abusivo della professione psicoterapica. Pare che non sia un caso infrequente. Senza riferimenti al caso, allego la parte scientifica della mia relazione, che smonta l'equazione comunemente accettata, anche dall'IPA,

psicoterapia = psicanalisi.

Una versione spiritosa dell'argomentazione contro l'identificazione della psicanalisi alla psicoterapia potrebbe essere la seguente.

Le eccessive preoccupazioni psicoterapeutiche dello psicanalista testimoniamo la permanenza in lui di forme di pensiero magiche e onnipotenti. Vorrebbe curare l'incurabile. Ma sorge un dubbio, che solo la psicanalisi permette di formulare. La volontà di fare del bene al prossimo è spesso una razionalizzazione che copre inconsce forme di aggressività verso l’altro.
Nel migliore dei casi, lo psicanalista-psicoterapeuta assomiglia a don Chisciotte, indottrinato com’è di prescrizioni terapeutiche standard come don Chisciotte era intasato di norme cavalleresche. L’analogia è ben più di una metafora. Tocca qualcosa della struttura soggettiva dei due personaggi. Riguarda in particolare la loro volontà di ignoranza, così come agli albori dell'epoca scientifica fu magistralmente individuata, riconosciuta e descritta dal genio letterario di Miguel de Cervantes Saavedra, acuto e perspicace testimone della trasformazione epocale in atto nell'episteme del suo tempo. Entrambi, psicoterapeuta e cavaliere errante, non vogliono sapere. Cosa? Che la scienza aristotelica è finita. Oggi vale l’algebra, un campo dove gli arabi hanno superato gli spagnoli; vale la fisica di Galilei senza motori né mobili né immobili; valgono considerazioni di probabilità invece che di cause; vale la biologia di Darwin, dove sopravvivono i più prolifici, senza il benestare di progetti intelligenti più o meno antropomorfi; ecc.
Insomma, la cavalleria, con il suo stereotipato umanesimo, è finita in fanteria. La psicoterapia, con il suo percolante buonsenso, è finita sui giornali femminili. Sembra che sia don Chisciotte sia lo psicoterapeuta non si siano aggiornati. Non si avvedono della modernità. È grave? Sì, se è vero quanto prescriveva Pascal:

Pensiamo bene! Questa è la vera fonte della moralità.

Parlando seriamente, la ragione del mio disinteresse per la psicoterapia è semplice. La psicoterapia è l'altra faccia, quella negativa, della scienza. Oggi si resiste alla scienza, che si confonde con la tecnica. Si resiste alla scienza in nome della conoscenza: in primis la conoscenza medica, che non è scientifica. Per ogni problema "eticamente sensibile" (aborto, eutanasia...) si interroga il medico, come soggetto supposto sapere il tuo bene. La terapia, psicoterapia compresa, è un fattore fortemente compromesso con il discorso medico. Non disponendo di un'epistemologia adeguata, Freud non riuscì a dissociare la psicanalisi dalla medicina, con conseguenze deleterie per la stessa sopravvivenza della psicanalisi. Infatti, se la psicanalisi è scientifica, la medicina prima o poi l'annienterà. Il discorso medico, infatti, è un fattore fondamentale di resistenza non solo passiva alla scienza ma attiva contro la scienza, in nome del rispetto della realtà oggettiva, del corpo innanzitutto, di cui la medicina possiede il vero sapere. In realtà il sapere medico è eziologico, quindi non scientifico – per l'esattezza, prescientifico, anche se addobbato di ritrovati tecnologicamente avanzati. Per queste e altre considerazioni mi tengo alla larga dal tanfo ippocratico che emana dalla psicoterapia.

Può sembrare che la prenda larga, ma il détour è necessario per decostruire un edificio millenario. Il bastione antiscientifico della medicina è il principio di ragion sufficiente in veste eziologica. Secondo tale principio ogni evento patologico – e da lì “ogni evento” – possiede una causa, precisamente, è determinato da una causa. Il fenomenologo tedesco lo dice: "Niente è senza Grund". Ogni ente ha un Grund che lo fa essere: l'essere, appunto. Io lo chiamo determinismo ontologico. (Per saperne di più cfr. Martin Heidegger, Il principio di Ragione (1955-1956), a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2002). Pur non essendo immediatamente filosofico, il discorso medico è fortemente deterministico, diversamente dal discorso scientifico, che è meccanicistico. (Per la differenza tra determinismo e meccanicismo, vai alla pagina Meccanicismo.) In medicina non esistono eventi “spontanei”, come quelli che canta il poeta:

La rosa è senza perché. Fiorisce perché fiorisce.

Non si cura di sé. Non si chiede se è vista.

(Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, 289)

In medicina, come nell'apparato psichico freudiano, tutto ha una causa. Gli eventi spontanei, sono una iattura per la medicina, quindi per la società. Il medico non saprebbe curarli, tanto meno prevenirli. L’industria farmaceutica non ne trarrebbe profitto. La gestione sanitaria, che tanti voti procura al potere, non avrebbe più senso. Vale, insomma, e deve valere in medicina, come altrove nella società, il principio di ragion sufficiente. Meglio se nella forma scolastica forte: Nihil est sine ratione. Poco importa che il principio forte di causalità (essere = dover essere) sia stato svuotato di dignità scientifica da Hume già nel XVIII secolo. Poco importa che l'eziologia sia stata indebolita dal calcolo delle probabilità, nella forma del teorema delle probabilità inverse di Bayes-Laplace. Funziona in pratica e tanto basta. La falsa scienza medica, figlia della scienza antica e cugina del cognitivismo moderno, basati entrambi sul principio di ragion sufficiente, durerà a sufficienza nei secoli venturi. (Maggiori dettagli si trovano nel mio saggio pubblicato su "aut aut" (340, 2008, pp. 153-169) , intitolato Tuttobeneverosì!, dove analizzo la relazione di reciproco autoinganno tra medico e paziente, il primo che offre una falsa scienza, il secondo che non vuole sapere la verità). Perciò un programma come il mio di avvicinamento della psicanalisi alla scienza, che non è necessariamente deterministica, deve prudentemente girare alla larga da considerazioni di tipo medico, in particolare da considerazioni terapeutiche, in quanto inficiate dalla volontà di permanere all'interno di falsità non falsificabili come quelle relative alla cura.

Ma c’è un’eccezione, a mio parere rilevante: la cura della follia. La follia – non uso deliberatemante il termine psichiatrico di “psicosi” – è un evento affine a quello scientifico. Come la scienza, la follia non ha una causa propria, ma esiste e segue la scienza come un'ombra, quasi fossero chiamate entrambe - scienza e follia - allo stesso destino. La follia, alter ego della scienza, è semplicemente scienza mancata. È la scienza che non ci sa fare con l’oggetto scientifico, che emerge all’alba della modernità: l’infinito. Perciò l’avanzamento della psicanalisi verso la scienza sicuramente non esclude, forse addirittura promette, qualche possibilità di cura per la follia. A patto di riconoscere che la follia sia, come afferma Foucault in appendice alla sua Storia della follia, assenza d’opera, in particolare assenza d’opera con l’oggetto della scienza. Data l’affinità tra follia e scienza, la cura della follia diventa automaticamente cura della scienza. Che è quanto ci interessa in questo sito:

la scienza cura se stessa.

Affronto le premesse storiche e filosofiche per pensare la possibità di una cura scientifica nel saggio

"L'ignorante e il folle".

La terapia psicanalitica non è qualcosa che si giustappone dall’esterno alla pratica scientifica della psicanalisi. La terapia è una modifica della pratica scientifica della psicanalisi nel senso che corregge vecchi ed errati modi di riferirsi all’oggetto scientifico, cioè all’infinito. In un certo senso la terapia analitica è un preliminare alla scienza analitica. Essa è il momento di formazione dello scienziato psicanalitico – momento auspicabile, anche se non strettamente necessario. Non si esclude, infatti, che possano sorgere spontaneamente degli analisti scientifici.
La concezione scientifica della psicanalisi precisa (e indebolisce) lo Junktim freudiano: ricerca e cura psicanalitiche insieme stanno e insieme cadono. Di più. All’interno di una concezione scientifica si concilia il falso dualismo che ha alimentato negli anni Settanta e Ottanta la sterile polemica tra analitici e continentali, i primi fautori di un’astratta sistemazione logica della filosofia, i secondi favorevoli a un approccio narrativistico al problema del soggetto, erede dello storicismo diltheyano. In estrema sintesi, con la scienza della psicanalisi decade il dualismo sincronia/diacronia. La diacronia della cura analitica, che si fa anche attraverso la narrazione, prepara alla sincronia dell’attività propriamente di ricerca.

Se quanto precede ha un senso, il nostro progetto di psicanalisi scientifica correggerebbe la posizione di Freud, che riteneva la psicanalisi inadatta al trattamento delle psiconevrosi narcisistiche. La condizione preliminare per applicare la psicanalisi scientifica alla follia è l’introduzione nello schematismo psicotico della dimensione dell’alterità. Solo dopo si può aggiungere la dimensione dell’oggettualità, che concerne un oggetto veramente altro, cioè l’infinito, cioè un oggetto “non categorico”. (Chi frequenta il sito si familiarizzerà presto con questo aggettivo, che descrive il fatto che una stessa struttura può essere tradotta o presentata in versioni o modelli non equivalenti).

Questo è il luogo giusto per far notare che non molto diversa da quella freudiana – cioè sostanzialmente medica – è la posizione di Lacan, che addirittura presumeva di individuare una condizione preliminare per il trattamento delle psicosi. (Non dimentichiamo che Lacan era psichiatra). Confrontato con l’approccio scientifico, l’approccio dottrinario di Lacan rivela in tutta la sua portata la concezione eziologica di tipo medico della malattia mentale. L’eziologia medica, impropriamente applicata alla psicanalisi, è orientata – direi quasi coattivamente – a stabilire la “causa” della psicosi come una malattia tra le altre. E Lacan, da bravo medico, trova la causa - l'essenza - della follia, esattamente come Freud, da medico un po’ meno bravo, trovava l’eziologia dell’isteria nelle scene sessuali infantili precoci (SSIP). “C'est dans un accident de ce registre [symbolique] et de ce qui s'y accomplit, à savoir la forclusion du Nom-du-Père à la place de l'Autre, et dans l'échec de la métaphore paternelle que nous désignons le défaut qui donne à la psychose sa condition essentielle, avec la structure qui la sépare de la névrose.”. (J. Lacan, D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose (1956), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 575). Insomma, il discorso deterministico è di un disarmante riduzionismo. Nella psicosi mancherebbe il Nome del Padre come nello scorbuto manca la vitamina C. Peccato che il Nome del Padre non lo producano né la Roche né la Bayer.

L’approccio scientifico recupera, per contro, la dimensione di spontaneità e di contingenza dell’evento “follia”, che la concezione psichiatrica tende a obliterare all’interno dei propri schematismi nosografici, non meno rigidi dello schematismo delirante del soggetto classificato come psicotico. In medicina non esistono fenomeni senza causa – spontanei – come sono fenomeni spontanei la radioattività in fisica, le mutazioni in genetica e le rivoluzione nella storia. Tutto va giustificato in base al principio di ragion sufficiente. Anche là dove manca una “ragione” apparente, cioè nella follia spontanea, lo psichiatra introduce di forza cause genetiche o infettive (da Bleuler in poi si fa così) o cause simboliche (da parte degli psicanalisti che vogliono correggere Freud). Definirei quello del medico un “delirio di ragion sufficiente” (o qualcuno preferirebbe la diagnosi: "fobia della spontaneità"?). Poco importa la questione terminologica. Si tratta di un delirio (o di una fobia) che il medico mette a servizio del potere per il controllo della devianza, con profitto personale e del capitale farmaceutico. In termini meno ad personam, direi che in medicina ha corso un’ossessione deterministica per la completezza eziologica, da cui finalmente la scienza cartesiana si è liberata, ma a cui spesso l’uomo di scienza ritorna per una forma quasi congenita e prescientifica di resistenza alla scienza moderna. Vedi la resistenza di Einstein non solo alla ma contro la meccanica quantistica e in particolare contro il principio di indeterminismo di Heisenberg.

La psicanalisi diventerà un discorso scientifico se si terrà lontana tanto da Ippocrate quanto da Einstein (condizione necessaria) e si curerà più di se stessa, invece di pretendere di curare gli altri (condizione sufficiente).

*

Mi rendo conto che il discorso che precede corre il forte rischio di essere frainteso. Data l'ubiquitaria resistenza alla scienza – una delle innumerevoli espressioni della volontà di ignoranza – è facile che quanto esposto venga recepito in modo semplificato secondo una formula del tipo:

"la scienza non si cura della sofferenza",

magari poi trasformata da considerazione teorica ad attacco diretto alla persona:

"Sciacchitano non vuole curare",

o addirittura in forma aggiornata e più aggressiva:

"Sciacchitano è in pensione e non prende più pazienti".

Rispondo brevemente a obiezioni di scarso peso teorico, in quanto sono ad personam, che tuttavia fanno presa sui potenziali utenti dei servizi "psi" e sulle domande d'analisi, perché sembra che la scienza e chi la coltiva mettano in secondo piano la persona e il suo disagio. Senza alcun disagio rispondo in termini personali.

Sciacchitano è uno psicanalista che conosce bene la sofferenza psichica e sa cosa vuol dire curarla. In trenta e più anni di attività ha curato molte persone, fino al punto in cui hanno voluto farsi curare. E continua tuttora. Sciacchitano, però, cura senza mettere la cura in primo piano, come da principio fa il medico. Con Sciacchitano la cura non è perseguita per se stessa. Con Sciacchitano prima si fa un lavoro di ricerca sul caso personale – chi la vuol fare – e la cura della sofferenza personale viene di conseguenza. Garantito sul Vangelo. Sciacchitano segue formalmente il principio di Gesù: "Chi mi segue avrà la vita eterna ed il centuplo quaggiù". Mettete "scienza" al posto di "vita eterna" e "cura" al posto di "centuplo" e capirete la posizione (non religiosa) di Sciacchitano.

Capisco che non sia facile accettare quella che sembra indifferenza alla persona. E in parte lo è, sul tipo dell'indifferenza del chirugo al dolore che egli stesso provoca. La scienza non fa immediatamente bene. A volte fa male. Perciò alla scienza resistono persino gli uomini di scienza... Sono in molti a preferire la vita eterna e ad accontentarsi di una psicoterapia quaggiù.

*

Lo dico sotto forma di slogan positivo:

La cura della scienza è l'etica,

dove il genitivo "della" va inteso sia in senso soggettivo (la cura che la scienza offre) sia in senso oggettivo (la cura che la scienza riceve). Questo slogan vorrebbe contrastare gli slogan uguali e contrari che provengono da altre sedi, per esmpio dalla Santa Sede, che afferma che la scienza non ha un'etica. Non discuto con chi non vuole saperne di sapere. Mi chiedo piuttosto: se la psicanalisi è una scienza, quale etica può offrire?

Ho risposto a questa questione nella relazione scritta a difesa di uno psicanalista, citato in giudizio da un suo paziente per abuso della professione psicoterapica. Se la psicanalisi è una scienza dell'ignoranza, l'etica che promuove è un'etica dell'ignoranza. Cosa intendo? Cito dalla suddetta relazione.

"Conosciamo le posizioni correnti. Sono molto semplici da formulare, essendo negative. La scienza non ha un’etica autonoma. Alla scienza l’etica, con i conseguenti limiti per la ricerca, va imposta dall’esterno. L’operare scientifico sarà sottoposto a giudizio della coscienza, della fede, della tradizione, ecc. L’uomo di scienza non è libero di operare, quindi, non ha accesso alla morale del proprio operato. Un “autorevole esponente” di questa concezione è niente di meno che l’attuale Pontefice. Al quale e a tutti i suoi devoti, atei e non atei, chiedo: “Come può un uomo non libero avere una propria morale?”. Avrà al massimo una deontologia, cioè un codice di comportamento eterostabilito, a cui conformare il proprio comportamento.
Nella presentazione della psicanalisi come scienza l’ottica cambia. Con la scienza siamo in regime di libertà, quindi ipso facto in regime morale. In particolare, se la psicanalisi è una scienza, essa possiede un’etica propria, addirittura una classe di etiche. A questo punto siamo attrezzati per fare un passo avanti nella direzione indicata da Cesare Viviani.
In pratica il teorema è implicito in quanto già detto. Se la psicanalisi è una scienza dell’ignoranza, la sua etica sarà un’etica dell’ignoranza. Come si configurerà? Non è difficile fornire una prima risposta che orienti sulla proprietà caratteristica della classe delle etiche scientifiche. Il plurale è già un segno di non categoricità. Se l’ignoranza è un sapere incompleto, le etiche che ne discendono saranno anch’esse più o meno incomplete, in funzione del sapere da cui traggono origine. Ogni sapere avrà la sua etica. Saranno etiche “provvisorie”, non fondate su principi primi generalissimi. Saranno etiche particolari, molto simili all’etica par provision  proposta da Cartesio nel suo Discorso sul metodo (Terza parte). Non saranno, in altri termini, etiche categoriche, fondate su leggi morali universali, magari su un’unica legge assoluta.
Le conseguenze di questa impostazione per il giudizio morale e metamorale (il giudizio sul giudizio morale) sono interessanti. La prima e maggiormente pertinente al caso in questione è che, se ti riconosci ignorante, devi essere disposto a riconoscerti responsabile anche di quello che non sai. L’esempio offerto dalla pratica analitica è emblematico di questa situazione di indeterminazione. Tu chiedi una psicanalisi a uno psicanalista. Chiedi qualcosa che non sai cos’è né dove ti porterà. Sai solo che è un lavoro sulla tua propria ignoranza. Devi, quindi, essere disposto ad accettare il punto di arrivo, imprevedibile a priori, del tuo percorso, quando parte della tua ignoranza si sarà tolta e trasformata in sapere.
La seconda conseguenza è stata ben illustrata da diversi moralisti: dal Nietzsche della Genealogia della morale (1887) al Lacan del Settimo seminario (1960). L’etica dell’ignoranza non è un’etica dei valori, che non conosci, né tanto meno del Sommo Bene, che sta fuori dal tuo campo epistemico. Valori e Sommo Bene determinano l’etica categorica, che secondo Nietzsche è un’etica servile. I valori che devi categoricamente rispettare sono quelli imposti dal padrone. Lungo questa linea di transvalutazione dei valori, nella sua Lettera sull’‘umanismo’ (1946) Heidegger arriverà a dire che i valori sono una bestemmia dell’essere.

Ma cosa si può dire in positivo di questa etica “provvisoria” da valutare dalle conseguenze a posteriori, piuttosto che dai presupposti a priori? È un’etica completamente indeterminata, prive di massime e di principi? No, solo che sono principi epistemici: fanno dipendere il dover essere dal dover sapere, il quale è in generale problematico. Il principio che trovo più conforme alla mia pratica di psicanalista fu formulato nel 1937 da Robert Musil a conclusione della sua conferenza Sulla stupidità, che era il suo modo di parlare dell’ignoranza: “Fai bene quanto puoi e male quanto devi”. Devi necessariamente fare male ­– dice Musil ­– perché inevitabilmente ti scontri con la stupidità tua e degli altri, essendo l’etica il rapporto fondamentale con l’altro (a cominciare dall’altro che tu stesso sei per te). Ma ciononostante puoi sempre fare qualcosa di buono. Non molto, naturalmente, per esempio ascoltare il soggetto nella seduta psicanalitica".

A questo punto non mi resta che allegare la mia traduzione del discorso di Musil

Sulla stupidità ((Über die Dummheit)

e augurare buona lettura.

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V

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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